SONG KANG-HO

Nome in coreano: 송강호

Professione: Attore

Data di nascita: 17 Gennaio 1967

Genere: Uomo

Biografia

Song Kang-ho nasce a Jinhae, in Corea del Sud, il 17 gennaio 1967. La sua carriera di attore inizia in teatro: dopo le prime esperienze semi-professionistiche negli anni universitari, Song diventa membro di una delle più importanti compagnie teatrali coreane, quella diretta da Kee Kuk-seo. Sotto la direzione di Kee, Song acquisce i principali fondamenti di uno stile recitativo che, pur puntando sul gesto enfatico, lascia anche molto spazio all'istinto e all'improvvisazione. Durante gli anni in cui Song si afferma sempre più come attore di teatro, non mancano le offerte provenienti dal cinema, tutte rifiutate fino al 1996, quando Hong Sang-soo gli offre la possibilità di recitare nel film The Day a Pig Fell into the Well. Dopo questa prima e positiva esperienza, Song inizia la sua carriera cinematografica: dopo aver recitato nella parte di un senzatetto nel documentario Bad Movie (1997) di Jang Sun-woo, Song interpreta il suo primo ruolo importante (quello del gangster alle prese con un gruppo di giovani reclute) in No. 3 (1997), il film-cult di Song Neung-han, che gli vale anche i primi importanti riconoscimenti. Nei successivi film (Timeless Bottomless Bad Movie e The Quiet Family, entrambi del 1998) Song interpreta per lo più ruoli secondari, fino a che non arriva la prima parte da protagonista, quella di un agente segreto in un thriller di grande successo come Shiri (1999) Kang Je-kyu, a cui segue The Foul King (2000) di Kim Jee-woon, in cui dimostra una straordinaria abilità fisica.
Sono tuttavia l'incontro e l'inizio del sodalizio con Park Chan-wook a lanciare Song come una delle star emergenti del nuovo cinema coreano: prima con JSA – Join Security Area (2000), in cui interpreta il ruolo di un sergente nord-coreano, e in seguito con Sympathy for Mr. Vengeance (2002), nei panni di un padre solitario a cui sequestrano la figlia. Dopo aver partecipato a un film ambientato all'inizio del Novecento, YMCA-Baseball Team (2002), che ricostruisce la storia della prima squadra di baseball coreana, Song avvia un altro importante sodalizio, quello con Bong Joon-ho, che lo vuole come protagonista in uno dei suoi film più importanti, Memories of Murder (2003).
Nel 2004 l'attore si fa dirigere da un altro giovane regista, Im Chan-sang, in The President's Barber, che racconta la storia immaginaria del barbiere personale del presidente sudcoreano Park Chung-hee. Nel 2005 Song ritrova Park Chan-wook per la terza volta in Sympathy for Lady Vengeance e partecipa ad Antarctic Journal di Yim Phil-sung, un vero flop al botteghino. L'attore si rifà però l'anno successivo, quando Bong Joon-ho lo chiama a interpretare il protagonista di The Host (2006), uno dei più grandi successi commerciali della storia del cinema coreano; il film permette a Song di imporsi anche all'estero, vincendo importanti premi come quello di Miglior Attore nel festival Asian Film Awards tenutosi a Hong Kong nel marzo 2007.
Divenuto un attore il cui talento è riconosciuto ormai in tutto il mondo, Song partecipa ad altri importanti film: ancora nei panni di un gangster in The Show Must Go On (2006) di Han Jae-rim; in Secret Sunshine (2007) si fa dirigere da un grande maestro del cinema coreano contemporaneo, Lee Chang-dong, in un film duro e poetico; si avventura in un western ipercitazionista come The Good, The Bad, The Weird (2008) di Kim Jee-woon, prima di fare il quarto film con Park Chan-wook, Thirst (2009), in cui intrepreta la parte di un sacerdote cattolico che si trasforma in vampiro. Dopo The Secret Reunion (2010), indossa nuovamente i panni del gangster nel thriller sentimentale Hindsight (2011) di Lee Hyeon-seung. Howling (2011). Attualmente sta lavorando al nuovo film di Bong Joon-ho, Snowpiercer.

Presentazione Critica

Song Kang-ho è «il» volto del cinema coreano contemporaneo. Nessun attore in Corea è più conosciuto, cercato, osannato e apprezzato di lui. Eppure la sua carriera cinematografica è relativamente breve, se si pensa che il suo debutto davanti alla cinepresa è avvenuto solo nel 1996, in un film di Hong Sang-soo (The Day a Pig Fell into the Well) in cui recita in una parte non certo di primo piano. Dovrà attendere il 2000 e l’incontro con Park Chan-wook per J.S.A. - Joint Security Area prima di essere lanciato nell’empireo delle star del proprio paese. Stiamo dunque parlando di un attore/divo che è sulla cresta dell’onda da poco più di un decennio, ma in questo caso il fattore temporale ha giocato decisamente a suo favore, visto che la prima decade del nuovo millennio è stata incontestabilmente quella che ha visto nascere e imporsi in tutto il mondo la nouvelle vague coreana. Come sempre è accaduto nella storia del cinema mondiale, nei periodi di forte cambiamento non vengono fuori solamente nuovi registi capaci di realizzare film nuovi, ma anche nuovi attori abili o adatti nell’interpretare personaggi nuovi. La parabola artistica di Song è tutta racchiusa in questo quadrilatero: se nell’ultimo decennio non ci fosse stata una rinascita culturale ed industriale del cinema coreano, probabilmente oggi Song sarebbe un attore sconosciuto. Non avrebbe cioè avuto l’occasione di poter adottare quella tecnica interpretativa che gli ha permesso di creare un tipo e di proporlo, sotto innumerevoli varianti, nei vari film in cui è stato protagonista.
Non è mai stato molto semplice per noi occidentali rapportarci alla recitazione degli attori provenienti dall’Estremo Oriente, per troppi anni considerati – nel nostro immaginario sempre un po’ autoreferenziale – portatori di una gestualità e di una mimica “esagerate”, eccessivamente caricate ai limiti dell’espressionismo. Tuttavia chi guardasse oggi un film coreano si accorgerebbe subito che ciò non è vero, almeno per quanto riguarda gli attori protagonisti. Un esempio? L’uso dei clichés (cioé quell’insieme di gesti e atteggiamenti particolari ripetuti nella stessa identica maniera in contesti diversi), come avviene nel nostro cinema, è esclusivo appannaggio dei caratteristi, cioè di quegli attori “usati” per determinare una precisa situazione spazio-temporale e per renderla immediatamente percepibile e riconoscibile dallo spettatore. Un attore come Song, che da più di dieci anni è chiamato a ricoprire ruoli da protagonista, non può permettersi di usare i clichés, se non in misura assai ridotta. Non deve essere stato facile per un interprete come lui, di solida e orgogliosa formazione teatrale, modellare alcune tecniche apprese in teatro in nuovo contesto, quello del cinema. Eppure l’apprendistato fatto presso una delle compagnie più importanti del teatro coreano contemporaneo (quella diretta da Kee Kuk-seo, che pur puntando su una recitazione enfatica lascia molto spazio all’istinto e all’improvvisazione) gli ha permesso di adattarsi al cinema piuttosto velocemente, nonostante la sua iniziale ritrosia. Se il lavoro dell’attore consiste da sempre nel dare vita a un personaggio che sia vero, complesso e unico, Song ha appreso pian piano come riuscire a raggiungere questo obiettivo: attraverso una recitazione capace di amalgamare le caratteristiche generali (immediatamente riconoscibili) a quelle più particolari (da ricercare attentamente) del personaggio stesso. Song nella sua carriera ha fatto questo, quello che fanno tutti gli attori, bravi e meno bravi, in tutto il mondo. Solo che lui ha avuto la fortuna e l’intelligenza di sapersi scegliere i compagni di strada, ovvero i registi giusti, quelli che fanno “recitare” con uno stile originale anche la cinepresa. Sì, perché al cinema il corpo e il volto (e dunque la recitazione) di un attore sono oggetto del costante “smembramento” in più immagini operato dal montaggio, secondo una scala che va dalla figura intera al dettaglio.
Già dai primi film in cui Song ricopre la parte del protagonista si possono trovare le tracce di questa sua abilità nel mescolare diversi registri interpretativi. Se in Shiri (1999) di Kang Je-kyu egli veste i panni di un agente segreto, è soprattutto in The Foul King (2000) di Kim Jae-woon che Song fornisce una straordinaria prova di quanto un attore possa “fare” un film. Nell’interpretazione di un personaggio vagamente stevensoniano (una sorta di moderno Dottor Jekyll e Mister Hyde), di giorno inerme impiegato di banca succube del proprio capufficio, di notte violento e scorretto wrestler di periferia, Song accentua fino al parossismo le caratteristiche di questi due diversi volti del medesimo personaggio, creando quel devastante conflitto interiore che da’ corpo allo story concept del film. La straordinaria abilità e agilità fisica (non sono state usate controfigure nel film) con cui Song “occupa” sempre più l’inquadratura - soprattutto nella seconda parte del film - spingono lo spettatore a riconsiderare la natura stessa del personaggio conosciuto all’inizio. Commedia e tragedia, humor e disperazione, goffaggine e coraggio: più i registri si confondono più l’attore sembra trovarsi a suo agio.
Lo deve aver capito molto bene Park Chan-wook quando chiede proprio a Song di interpretare la parte di un oscuro sergente nord-coreano in JSA – Join Security Area, non a caso un film che, pur presentandosi come «di genere» (un giallo sotto forma d’inchiesta militare) richiede ai propri personaggi uno scatto “in più”, per farsi inconsapevoli protagonisti delle tragedie della Storia (la divisione nord-sud tra le due Coree). E’ proprio grazie alla sensibilità di Park che Song entra così, a pieno titolo, nel “clima” del nuovo cinema coreano, in cui l’attore è chiamato a incarnare una trasformazione che attraversa la modalità stessa di pensare e realizzare un film. Lo si percepisce ancora di più in Sympathy for Mr. Vengeance (2002), secondo episodio della lunga e duratura collaborazione tra Song e Park, in cui l’attore è chiamato a rivestire i panni del ricco, orgoglioso e solitario Park Dong-ji, a cui viene rapita e uccisa l’unica figlia. E’ forse il film in cui la coppia regista-attore raggiunge il punto d’equilibrio più forte: la messinscena e il montaggio danno corpo non solo alla fisicità sempre più affaticata e provata dell’attore, ma soprattutto ai suoi sentimenti, un coacervo di disperazione e sete di vendetta che Song plasma attraverso una mimica misuratissima che letteralmente “esplode” in più momenti in una gestualità caricata, ai limiti dell’espressionismo. Il successo del film, in patria e all’estero, è tale che d’ora in poi sarà difficile scindere il volto di Song dal cinema di Park, in un binomio divistico che segna tutto il successivo decennio del cinema coreano.
E’ forse per non cadere nelle maglie di un’immediata riconoscibilità che Song, nello stesso anno, partecipa a un’operazione che più lontana dal mondo di Park non potrebbe essere. Stiamo parlando di YMCA-Baseball Team (2002), che ricostruisce la storia della prima squadra di baseball coreana. Un film ambientato all’inizio del Novecento e pensato per un circuito più commerciale, che Song accetta di fare per rafforzare la sua reputazione di attore a tutto tondo, disponibile a una continua metamorfosi. I toni volutamente epici del film, in cui non mancano tuttavia momenti di comicità, permettono all’attore di recuperare quella dimensione più autoironica e leggera che non c’è nei due film di Park. Del resto, per un attore come Song, il cambiamento di registro è un fatto di natura “stilistica”, appartiene cioè al suo modo di essere attore.
Da questo punto di vista, l’incontro con il giovane Bong Joon-ho per Memories of Murder (2003) segna un interessante punto di arrivo nella carriera di Song, visto che il regista permette all’attore di poter dimostrare quelle potenzialità comico/grottesche rintracciabili già in The Foul King. Il film di Bong, che ha la struttura di un giallo, vede la classica figura del detective sdoppiata in due personaggi assai lontani tra loro per carattere e temperamento, interpretati inoltre da due attori diversissimi, uno dei quali è proprio Song. A lui tocca vestire i panni del poliziotto violento e pasticcione, molto istintivo, ma assai poco ragionevole. Alla fine il mistero (ispirato ad alcuni fatti di cronaca nera realmente accaduti nella Corea degli anni Ottanta) non verrà risolto, l’assassino non sarà consegnato alla giustizia, l’intero meccanismo di genere sembra alla fine incepparsi e a farne le spese sono soprattutto i due protagonisti del film, che non hanno nulla dell’aura romantica del personaggio archetipico e che, al contrario, si rivelano tristemente inadeguati di fronte ai tragici eventi a cui avrebbero dovuto dare una risposta di verità. Alla cerebrale freddezza del personaggio interpretato da Kim Sang-kyung, Song contrappone una recitazione caricata, fatta di scatti improvvisi e accenti nervosi, per di più appoggiata su una certa inedita “pesantezza” fisica dell’attore; Song ricorre dunque a quelle tecniche dell’imitazione che permettono a un attore di rendere in maniera efficace un altro (il personaggio) diverso da lui, ricercando un preciso insieme di segni esteriori. E’ proprio in Memories of Murder che Song arriva a elaborare un tipo ben preciso, quello dell’anti-eroe goffo e maldestro ma dalla straordinaria umanità, che inizierà a sviluppare e a riproporre, sempre “sotto mentite spoglie”, nella gran parte dei successivi ruoli che sarà chiamato a interpretare. Non tanto nell’oleografico The President’s Barber (2004) di Im Charn-sang, o nel terzo film girato con Park, Sympathy for Lady Vengeance (2005), né tantomeno in quell’autentico flop che è stato il kolossal Antarctic Journal (2005) di Yim Phil-sung, ma proprio in quello che ancora oggi rappresenta il suo più grande successo (soprattutto in termini commerciali), ovvero The Host (2006) di Bong Joon-ho.
Nel secondo film girato con Bong, l’attore coreano è chiamato a interpretare la parte del protagonista in un film fortemente spettacolare, che mette insieme più generi (fantasy, horror, action, thriller, avventura), dietro i quali, tuttavia, si nasconde la vera anima del film, rappresentata dalla tragica storia di una famiglia segnata da rapporti personali contrastanti. Avviene in The Host quello che si diceva all’inizio, ovvero film nuovi in cui si concretizzano personaggi nuovi: il ruolo di Park Gang-du, uno dei tre fratelli chiamati, insieme al padre, a salvare la vita della piccola sorellina catturata dal terribile mostro venuto dal fiume Han, è un’occasione straordinaria che Bong offre a Song per permettere all’attore di riproporre, sotto nuove sembianze, il suo tipo. Non solo perché la parte implica un’ottima padronanza delle capacità fisiche (rocamboleschi inseguimenti, ardite prove di coraggio, ecc.) e un uso espressivo della mimica (le situazioni di sorpresa o di paura sono stilemi necessari per un film di questo tipo), ma perché eleva la figura di un mediocre al rango di un (anti)eroe inconsapevole. All’inizio del film Gang-du è presentato da Bong come un personaggio grottescamente comico, un uomo con la testa e vizi di un adolescente (in questo caso sia il trucco, sia l’acconciatura, sia i costumi – la felpa verde, ad esempio – sono elementi essenziali per definirne il carattere) che mai nessuno si sognerebbe di poter vedere nei panni di un prode capace di salvare una città e un paese intero da una gravissima minaccia. Invece la coppia Bong-Song lavora per tutto il film su questa aporia, trasformando Gang-du in un eroe quotidiano, un “gigante” inconsapevole, un vincente con l’animo del perdente. Ecco perché The Host è un film-chiave nella carriera di Song: gli permette di imporsi in patria e nel resto del mondo come il più importante attore coreano contemporaneo, ma chiarisce anche come la formula adottata da Song (incararnare un personaggio-tipo piuttosto riconoscibile e, attraverso le tecniche dell’imitazione, modellarlo nei più svariati contesti) sia vincente.
Non è un caso, probabilmente, che il film interpretato dall’attore nello stesso anno, The Show Must Go On di Han Jae-rim, presenti molti punti di contatto con The Host. Potrà sembrare paradossale, ma è così, proprio perché il lavoro dell’attore si muove sempre tra ripetitività e originalità. Song in questo film interpreta la parte di In-gu, un gangster, figura assai diffusa nel cinema coreano di oggi, visto l’alto numero di thriller che vengono prodotti. Attenzione, però, perché il film ci racconta la tragedia di un uomo ridicolo, che sperimenta costantemente le aporie tra le preoccupazioni della vita quotidiana e il ruolo che egli è chiamato a interpretare nella società. Questo piccolo gangster goffo e maldestro, odiato dalla figlia, poco compreso dalla moglie, in perenne contrasto con il figlio del suo boss, non ha nulla di quell’aura romantica a cui la storia del cinema (sia in Occidente che nell’Estremo Oriente) ci ha abituato. E’ piuttosto una figura mediocre, vittima di eventi che tenta invano di controllare, ma dai quali viene puntualmente travolto, un loser, insomma, e della peggiore specie. Sarebbe forse superfluo dire che Song si trova davvero a suo agio nei panni di questo personaggio. L’attore ricorre ancora una volta alla tecnica dell’imitazione: quando assume un’espressione tende a renderla ben visibile, mescolando i segni delle diverse sensazioni ed emozioni che nei vari momenti rendono concreto il personaggio, in una sorta di «montaggio delle espressioni». Ne è un esempio proprio la parte finale del film, in cui In-gu è braccato dalla gang del suo capo e Song deve restituire una serie di stati emotivi molto diversi (paura, rabbia, sconforto, coraggio, determinazione, ecc.) e lo fa rendendoli immediatamente percepibili dallo spettatore. Come? Sottolineando espressivamente sia le azioni che i gesti (e appoggiandosi ancora una volta ai costumi).
Anche molti dei successivi personaggi interpretati dall’attore coreano sono riconducibili all’elaborazione di un tipo, eccezion fatta per la parte interpretata in Secret Sunshine (2007) di Lee Chan-dong, un film intenso e drammatico in cui tuttavia Song “cede” la parte di protagonista alla straordinaria Jeon Do-jeon e si ritaglia un ruolo da deuteragonista, garantendo tuttavia con la sua presenza un giusto equilibrio attoriale. Già a partire da The Good, The Bad, The Weird (2008) Song può ritornare al suo schema interpretativo preferito, aiutato stavolta dalla struttura di un film che sin dal titolo si presenta programmaticamente strutturato come un omaggio a un certo cinema di genere (lo spaghetti western degli anni Sessanta). In un cast assemblato per favorire l’impatto sul grande pubblico, Song, pur dividendo la scena con altri due divi del cinema coreano di oggi, Jung Woon-sung e Lee Byung-hun, è innegabilmente la vera star del film. L’euforia citazionista e l’estetica del pastiche che contraddistinguono il film costituiscono di per sé una buona base su cui costruire la parte, per cui Song può agevolmente fare il minimo sforzo per ottenere il massimo risultato. Dando un tocco personale a un personaggio che deve necessariamente apparire tipizzato, l’attore riesce comunque a rendere il “Matto” (un bandito che ama rapinare i treni) una figura meno prevedibile rispetto alle altre due.
Un più interessante esperimento di recitazione appare invece quello di Thirst, quarto film che Song interpreta per Park Chan-wook, in uno dei ruoli più complessi della sua carriera. Certamente il regista sceglie il suo attore feticcio perché l’intesa tra i due è ben collaudata e del resto sarebbe stato difficile trovare in Corea un attore che potesse efficacemente dare credibilità a Sang-hyeon, un rispettabile e amato sacerdote cattolico che si trasforma suo malgrado in un vampiro attratto dai piaceri della carne. In Thirst Song è chiamato a gestire questo graduale cambiamento del personaggio, e anche in questo caso ricorre agli strumenti dell’imitazione, con una recitazione che punta tutto su questa trasformazione. Se infatti all’inizio del film Song fa di tutto per far apparire il prete come un uomo misurato, rassicurante, coraggioso (attraverso una mimica calibratissima e una serie ristretta di piccoli gesti quotidiani), con lo sviluppo della narrazione e il mutamento psico-fisico del personaggio, l’attore ricorre a effetti ben riconoscibili, caricando espressivamente svariati stati emotivi, in un registro interpretativo che privilegia soprattutto il gesto enfatico. In ciò l’attore è aiutato dall’altra protagonista del film, la giovane Kim Ok-bin, nei panni della ragazza di cui Sang-yeon si innamora perdutamente. Rispetto a Secret Sunshine, in cui era Song a dover “rincorrere” sul piano interpretativo l’attrice protagonista, nel film di Park avviene il contrario. Come tutti i divi, anche Song sembra essere più a suo agio nelle parti di protagonista assoluto, soprattutto quando si trova in coppia con una giovane attrice. E’ in realtà lo stesso tipo di type-casting che si ritrova in Hindsight (2011) di Lee Hyeon-seung, in cui Song recita al fianco di una semiesordiente come Shin Se-kyung, in una storia d’amore e di morte che mette insieme due generi diversi come thriller e melodramma. Di fronte a un personaggio, quello della killer Se-bin, fortemente tipizzato (non è che una variante rivista e aggiornata della dark-lady, figura tipica del noir americano e asiatico) soprattutto grazie all’acconciatura (una lunga frangia le copre spesso parte del viso) ai costumi (i capi in pelle) e agli oggetti che usa (la motocicletta), Song ripropone la figura del malavitoso solitario, malinconico e crepuscolare (si è ritirato dalle attività e spera di aprire un ristorante), un personaggio contrastante, diviso tra l’istinto ferino e sanguinario del gangster e quello più indolente dell’uomo innamorato. Ancora una volta, dunque, il ritratto di un piccolo uomo alle prese con una quotidianità difficile e con una realtà che non riesce a controllare e che spesso appare più misera e ingannevole di quanto si possa pensare.
In attesa di poter vedere i suoi prossimi film, Howling (2012) di Ha Yu, ma soprattutto Snowpiercer, il nuovo film di Bong Joon-ho dato in uscita per il 2013, una cosa è certa: Song ha ormai raggiunto una maturità professionale invidiabile, che gli consente di poter scegliere tra le molte offerte che gli vengono fatte – non solo in Corea – da una posizione di forza, costruita in quest’ultimo decennio grazie alla sua capacità di elaborare uno stile interpretativo che egli ha saputo adattare al nuovo contesto del cinema coreano d’inizio millennio e che, sebbene possa sembrare mutevole, in realtà resta sempre lo stesso. E’ il segreto di ogni (buon) attore, in realtà. La vertigine, insomma, è solo apparente.