Action Boys è un documentario assai curioso che parte con tono andante, quasi parodistico, per poi assumere una connotazione più seria, persino toccante. Jeong Byeong-gil apre, infatti, il film con un autoritratto marcatamente autoironico, ove si dipinge come irredimibile nerd che cerca un’improbabile fortuna nel mondo del cinema. Il tutto attraverso una roboante narrazione in voce over che pare una parodia della voce over di Lady Vengeance di Park Chan-wook. Questo capitolo introduttivo, quasi meta-cinematografico, si chiude sulla decisione di Jeong di realizzare il documentario vero e proprio: Jeong si eclissa, passando dietro la macchina da presa e lascia il campo, letteralmente, ai suoi ex compagni e amici Gui-duck, Jin-seok, Sung-il e Sye-jin. Jeong li segue tanto sui set su cui lavorano quanto nella vita privata, registrando una serie di situazioni che hanno del sorprendente. Pare, ad esempio, incredibile l’atteggiamento noncurante e addirittura sorridente con cui si racconta di gravi incidenti sul set, mentre le peripezie del ‘cavallerizzo’ Sye-jin hanno una qualità fantozziana semplicemente impareggiabile. In maniera sottile e quasi impercettibile, però, Byeong vira progressivamente il registro del film. Con la confessione di Gui-duck in merito al conflittuale rapporto col padre e con la morte del direttore degli stuntman sul set di The Good, the Bad and the Weird di Kim Jee-woon, Action Boys prende una piega quasi drammatica che rivela la vera natura del film. Ossia quella di sentito e partecipe omaggio a tutti coloro che, sconosciuti al grande pubblico, contribuiscono grandemente alla riuscita spettacolare di film o serie televisive intraprendendo il ‘mestiere più vicino alla morte’…