ARIRANG

Titolo Coreano:

아리랑

Pronuncia Originale:

A-ri-rang

Titolo Italiano:

Conosci te stesso

Regista:

Anno:

2011

Durata:

100

Nazione:

Corea del Sud

Formato:

HD

Tipologia:

Colore:

Colore

Lingua:

Coreano

Sottotitoli:

Italiano, Inglese

Genere:

Produzione:

Distribuzione Internazionale:

Interpreti:

Sceneggiatori:

Direttore alla Fotografia:

Edizione Festival:

Sinossi:

Durante le riprese di Dream, pellicola del 2008, la protagonista, vittima di un incidente, rischia di rimanere impiccata. Si salva, ma l’accaduto turba così tanto Kim Ki-duk da costringerlo a ritirarsi in montagna in completa solitudine. Arirang, (il titolo ispirato ad un’antica canzone coreana), è la storia del suo eremitaggio, un lungo esame di coscienza, una video confessione che gravita attorno alla sua vita, al cinema, all’inabissarsi nel baratro della depressione, all’afflizione catartica che il maestro si è volontariamente imposto.

Recensione Film:

Ci sono almeno tre passati che pesano su Arirang. Il primo, più recente, è quello biografico: la depressione del regista dovuta ad un incidente accaduto sul set di Dream (durante il quale un’attrice ha rischiato di morire soffocata, ed è stata salvata fisicamente proprio da Kim Ki-duk), e alla delusione per il presunto tradimento di due dei suoi più stretti collaboratori, Hun Jang e Jeon Jae-Hong, colpevoli, secondo lui, di averlo abbandonato per accettare offerte dalle grandi case di produzione coreane. Il secondo è quello del suo cinema più vicino, fatto di film tanto affascinanti dal punto di vista estetico, quanto sostanzialmente vuoti: Dream appunto, e poi a ritroso Soffio, Time e forse anche L’arco. Il terzo, il più importante, è quello del suo cinema più antico, e più importante, da Crocodile a Bad Guy, passando soprattutto da Real Time. Poi c’è il presente, quello di Arirang: onestamente ci (mi) importa poco delle tracce autobiografiche, e preferiamo (preferisco) dimenticare l’ultimo cinema di Kim Ki-duk, ma Arirang è senza dubbio un nuovo punto di partenza, che sembra nascere dalle ceneri di Real Time. Di cosa si tratta? Senza dubbio di un documentario autobiografico, come ammette lo stesso regista guardando dritto nella macchina da presa: “Ora non posso girare film quindi riprendo me stesso, riprendendo me stesso voglio confessare la mia vita come regista e come essere umano”. Ma è anche un film di finzione, potremmo dire un mockumentary, perché si conclude con una lunga erranza di vendetta (ancora in comune con Real Time), in cui Kim Ki-duk viaggia in automobile da un luogo all’altro per uccidere (fuori campo) le persone che lo hanno deluso, e poi si suicida, sempre guardando dritto verso la camera. Se Real Time rompeva l’illusione con una ripresa dall’alto che lo inquadrava, con il suo antico e immancabile cappellino, mentre gridava “Stop”, Arirang si conclude con una ripresa ravvicinata di Kim Ki-duk grasso, sporco e sfatto, i capelli lunghi spettinati, che grida “Ready! Action”. Fine e inizio della finzione, e del cinema. Per tutto il film parla con se stesso (cioè con l’occhio della ripresa), con il suo doppio in campo e controcampo, con la sua ombra e con la sua immagine sullo schermo in fase di montaggio. Parla di cinema e di vita, di finzione, di genere e di personaggi. Forse il miglior apprezzamento che si può fare ad Arirang è di essere uno straordinario film di genere, di quelli in cui il personaggio gioca a fare il cattivo, perché è più facile stare in scena gridando, picchiando e insultando che cercando di essere buoni. È più semplice essere crocodile e bad guy che fantasmi. “Che cosa hai appena detto?” recita guardando la macchina da presa per fare le prove da cattivo, e quindi guardandosi allo specchio: l’omaggio a Taxi Driver sembra scontato. Ma chissà quanto consapevole? Kim Ki-duk non conosce il cinema, non conosce la storia, forse non ha mai visto Taxi Driver e nemmeno 8 e ½. L’unica cosa che Ki-duk sa fare è mettere la macchina da presa di fronte al cortocircuito tra finzione e realtà, tra menzogna e onestà. In Arirang è una fotocamera Canon, ed è costretto a tenerla quasi sempre fissa, perché non c’è nessuno oltre a lui sul set, e se è davanti a lei (immaginiamo un rapporto emotivo, sensuale, e non oggettivato) non può essere dietro. Eppure segnando il punto di vista è in grado di costruire e creare una fluidità che mancava nei suoi ultimi, ricchissimi, film. Non importa se quello che mostra è vero: l’unica cosa che deve interessarci è che, finalmente, è di nuovo poesia.