Sinossi:
Durante l’era della dinastia Chosum, nella Corea del XVII secolo, il regno è afflitto dalla svalutazione economica provocata da un’inondazione di moneta falsa. Il veterano Ahn e la giovane e irruenta poliziotta Namsoon devono indagare e finiscono sulle tracce di un misterioso ladro-spadaccino mascherato. Si accorgeranno presto che sotto il nome romantico di “Sad Eyes” si nasconde Gu Jang-gon, protetto e preferito del Ministro della Difesa, vero responsabile dell’inflazione. In una sarabanda di inseguimenti, duelli e scontri fisici ed emotivi, i due detective riusciranno (forse) ad avere ragione di Gu, ma il cuore di Namsoon è stato rubato per sempre dal giovane dai lunghi capelli neri e dallo sguardo imperscrutabile.
Recensione Film:
Duelist” è in realtà una grande storia d’amore e tutta l’intelaiatura del racconto è una gabbia e un pretesto per ambientare gli incontri e le schermaglie tra Gu e Namsoon. “Mi segui perché mi ami o perché mi stai inseguendo?”: nella domanda che Gu rivolge a Namsoon e che introduce la straordinaria sequenza del loro duello notturno al chiaro di luna, rischiarato dai lampi di una tempesta (sensuale oltre che naturale), c’è la chiave di tutto il film. Il tema dell’inseguimento (che in “Nowhere to hide” era di confronto virile e in “M” sarà inconscio-mentale) diventa qui terreno di svolgimento della passione amorosa ed erotica. Ma, come sempre in Lee Myung-se, nulla è così semplice e schematico. Sul parallelismo immediato tra scontro fisico e tensione sessuale, il regista innesta una serie di raddoppiamenti e varianti. Sia Gu che Namsoon sono personaggi bivalenti e “doppi”. Namsoon è una ragazza mascolina e violenta, che si ubriaca e dà in escandescenza, e nasconde la sua femminilità sotto abiti virili: uno dei loro duelli si conclude quando Gu riesce con la lama a squarciare la casacca di Namsoon e a intaccare appena la fasciatura che le stringe i seni, in una vetta di sottilissimo e sublime erotismo. Gu è una figura androgina, ambiguamente legata al vecchio Ministro, che ne “possiede il nome”, cioè lo spirito, oltre che (forse) il corpo. Anche sul piano visivo, “Duelist” lavora costantemente sul ribaltamento delle attese, e mette in scacco le associazioni più semplici: da una parte l’ambientazione storica e la centralità dell’elemento marziale rimanda al genere del wuxia (ma controllato nell’anti-realismo dei combattimenti), dall’altra la straordinaria perfezione formale delle immagini e i virtuosismi raggiunti nella ripresa dei duelli-balletti fanno pensare all’Ang Lee di “La tigre e il dragone”, e allo Zhang Yimou di “Hero” e di “La foresta dei pugnali volanti”. Ma Lee Myung-se prende subito le distante della tradizione, e usa le sue armi consuete per destrutturare l’idea di un once upon a time in Korea: non solo il ricorso all’alleggerimento comico (di situazioni, ma anche di corpi e di gesti: il riferimento è a Buster Keaton più che alla commedia nazionale), ma anche l’uso della musica, che si fa motivetto pop e ritmato, oppure sinfonia classica. In una delle prime scene del film, lo scontro tra detective e contadini intorno ad un carretto rovesciato si trasforma nella parodia di un’azione di rugby (con un sacchetto al posto della palla), ma a fargli da contrappunto c’è un brano di musica classica: è già un primo omaggio kubrickiano (il riferimento è alla rissa musicata da Rossini di “Arancia meccanica”), che apre al dialogo esplicito di “M” con il Maestro inglese. Anche rispetto ai “padri” del moderno wuxia “occidentalizzato”, Lee Myung-se compie un passo ulteriore: più che alle cavalcate e agli amplessi di Ang Lee, i balletti erotici di Namsoon e Gu fanno pensare agli scontri notturni di Batman e Catwoman nel “Batman Returns” di Tim Burton. E alla fine, ancora una volta, niente è come sembra.