CHOI MIN-SIK

Nome in coreano:

최민식

Pronuncia del nome:

cioi min-sic

Professione:

Attore

Data di nascita:

22 January 1962

Genere:

Uomo

Biografia

Choi Min-sik è nato nel 1962. Prima di apparire al cinema, si era già costruito una reputazione a teatro; negli anni ’90, lavora molto anche per la tv. Al cinema, il suo primo ruolo importante è in “Our Twisted Hero”, nel 1997. Con “Shiri”, nel 1999, nel ruolo di una spia nordcoreana, coglie uno dei più grandi successi del cinema coreano di sempre. Seguono “Failan” nel 2001 e il cult movie “Oldboy” nel 2003. Al festival di Cannes nel 2006 Choi ha protestato pubblicamente contro la decisione del suo governo di ridurre la quota di film coreani programmati in patria. Per protesta, ha abbandonato il cinema per tre anni, per poi tornare sul set con “Himalaya”. Ha vinto numerosi premi all’Asia Pacific film festival, all’Asian film festival di Deauville, ai Blue Dragon e ai Grand Bell Awards.

Presentazione Critica

E’ il De Niro coreano, hanno scritto. Il nome probabilmente può suonare ancora remoto, qui da noi in Italia. Ma basta dire “il protagonista di Oldoboy”, e allora abbiamo capito. Choi Min-sik è uno dei più importanti attori coreani, un volto-feticcio di tutto il cinema coreano contemporaneo. Il Korea Film Fest 2014 porta davanti agli occhi del pubblico italiano una selezione dei film che Choi Min-sik ha interpretato, in questi anni, fino a diventare una luce imprescindibile di quella cinematografia.
Pittore selvaggio, serial killer ossessivo, musicista spento, prigioniero per quindici anni e poi vendicatore disperato e inconsapevole. E ancora, colletto bianco finito nel vento e nella polvere dell’Himalaya, a trascinare le proprie scarpe e la propria valigia. O pugile fallito, devastato di pugni della vita, costretto a vendersi in mezzo alla strada, come un clown o un mendicante. O poliziotto determinato, e in un altro film piccolo balordo senza nulla al mondo per cui vivere, se non una donna sposata per corrispondenza. Se c’è un comun denominatore nelle caratteristiche di Choi Min-sik, è quello di saper diventare esseri diversi, a volte diametralmente opposti: vittime e carnefici, dominatori e sconfitti, artisti e assassini. Ma sempre con un tratto di ostinazione, di coriacea resistenza di fronte alla vita.
Choi non “recita” i sentimenti, l’amore, non ha gli sguardi e i gesti degli attori belli del cinema hollywoodiano. Sembra sempre guardare, e vivere, per sé, non per lo schermo, non per noi spettatori. E questa è anche la sua arte. Un corpo – il suo – che ignora, ostinatamente, la presenza della cinepresa, come se fosse in fuga dal nostro sguardo di spettatori, e non lì ad offrirvisi, ad esporsi, come fanno la maggior parte degli attori.
Corpo abbandonato, donato in tutto e per tutto ai film che interpreta, Choi arriva a fare di tutto, senza fermarsi, senza limitare il range del suo personaggio. Tom Cruise o Clooney farebbero quello che fa lui? Mangiare un polpo vivo, farsi vedere in mutande, sciatto, fare sesso in fretta come un animale, senza niente di quel romanticismo di cui Hollywood riveste ogni scena di sesso. Farsi usare come punching ball umano e farsi riempire di pugni da uomini e ragazzine, fumare, tossire, camminare. Quello di Choi Min-sik è un cinema del corpo, più ancora che della parola. E lui è un attore che non ha paura di raccontare, e mostrare nel suo corpo, gli abissi del degrado, la sciatteria, la depravazione, il toccare il fondo dell’umanità.
Ci vuole arte, per fare tutto questo. E Choi Min-sik questa arte l’ha costruita a teatro, per poi approdare alla televisione e al cinema. Si diploma a vent’anni in teatro all’università di Dongguk, e comincia una fitta attività teatrale. Al cinema, i suoi primi ruoli sono negli anni ’90: Uri Sarang Idyaero del 1992, Our Twisted Hero (Urideului ilgeuleojin yeongung) sempre del 1992 . Nel frattempo, lavora molto per la televisione: per i network KBS, MBC, SBS. E a teatro si fa applaudire in Equus nel 1990, in una versione coreana di Taxi Driver nel 1997, in un Amleto del 1999.
Ma è con Shiri, nel 1999, dove interpreta una spia nordcoreana, che Choi coglie un successo immenso, in uno dei film più popolari di sempre nel cinema coreano. Choi è nato nel 1962: ha trentacinque anni quando fa il suo ingresso “vero” nel cinema. Non è più un ragazzino. E nei film che vediamo, un ragazzino non lo sarà mai. Si porta addosso, in ogni film, lo spessore di un passato, la macerazione di dolori e ferite che non sappiamo, ma che riusciamo sempre a intuire nel suo volto. Molti attori sono passati, nella carriera, da ruoli di adolescente vivace a giovane romantico, ad amante maturo: DiCaprio a vent’anni volava sulla prua del Titanic, icona dell’adolescenza, per poi ispessirsi, film dopo film, e acquisire peso e carisma. Scamarcio viveva tre metri sopra il cielo, per la gioia delle ragazzine, per poi mescolare fascino e ironia, dramma e maturità in dosi sempre più equilibrate, di film in film. Lui, Choi, un ragazzino al cinema non lo è stato mai. Ha saltato quel passaggio. In lui sentiamo sempre lo spessore del vissuto, vediamo le cicatrici del tempo, percepiamo una scorza dura che viene dagli anni. Non chiede la nostra simpatia, la nostra tenerezza. La durezza del vivere gli arriva addosso, in ogni film, e attraverso di lui arriva a noi.
Da attore di razza, Choi dà un’importanza assoluta al regista. “La cosa più importante, per un film, è il regista. E’ la sua visione quello che io cerco di portare sullo schermo, di comunicare agli spettatori”. La collaborazione diviene vitale, al punto che spesso Choi si trova a metter mano alla sceneggiatura dei film insieme al regista.
Ed è con un regista celebrato, un’icona del cinema coreano, che Choi interpreta uno dei primi grandi ruoli, quello che per primo lo fa conoscere all’estero: “Ebbro di donne e di pittura”, biografia del pittore coreano Jang Seung-eop. Ma soprattutto, per lui è l’occasione di lavorare con Im Kwon-taek, una leggenda del cinema coreano, mezzo secolo di film e innumerevoli premi vinti.
E’ il 2002. L’anno dopo, interpreta “Oldboy”. E lì, nel personaggio di un uomo imprigionato per quindici anni, senza capire perché, ci mette del suo. Si inventa scene memorabili. “L’idea di mangiare il polpo vivo è mia”, confessa. E la scena è da brividi: Choi prende un polipo che si sta muovendo nel piatto, gli strappa con un morso la testa, e a mani nude si mette i tentacoli in bocca, e li mangia mentre si stanno muovendo e dibattendo. Non è un effetto speciale. Chissà se Benedetta Parodi potrebbe prendere spunto dalla scena.
“La scena non era nel copione. Ma dopo quindici anni di abbrutimento, il personaggio era divenuto un essere primordiale, pieno di rabbia”, dice Choi. “Ho pensato che fosse consono al personaggio fargli afferrare il polpo e mangiarlo vivo. L’ho suggerito a Park Chan-wook e lui ha accettato”.
Per noi è una scena di una intensità insostenibile. Ma non è l’unica scena forte che Choi interpreta senza controfigura: in “Crying Fist”, nell’ultima scena i due personaggi interpretano un incontro di boxe. E Choi rivela: “i pugni erano veri. Volevano fare qualcosa di differente da film come ‘Rocky’. E’ stata anche l’ultima scena girata. “Non dobbiamo girare più, e tutto sommato non moriremo. Allora, facciamo sul serio mentre filmiamo”, ho detto al regista e all’altro attore”. E così è stato. Coraggio, verità del cinema, follia attoriale. Tutto questo insieme. “Gli attori coreani arrivano a sacrificare se stessi per esprimere qualcosa. Gli attori americani si preoccupano molto per la propria sicurezza personale. Noi andiamo oltre, fino al punto di farci del male. Esprimere qualche cosa diviene fondamentale. Siamo pronti a sacrificare tutto, per questo”, dice.
Nel 2006 Choi ha quarantaquattro anni, è nel pieno della sua maturità di attore. Ma decide, coraggiosamente, di tirarsi fuori dai giochi, di perdere le occasioni di guadagno, di fama, di successo per tre anni. Il motivo? La decisione del governo coreano di ridurre la “quota” di cinema coreano programmato nelle sale. Da molti anni, il governo proteggeva il cinema nazionale con un numero fisso di giorni di programmazione nelle sale. Su pressioni delle major statunitensi, questa quota era stata abbattuta. Choi, capofila della protesta di attori, registi e maestranze del cinema coreano, decide di abbandonare il cinema, dopo aver espresso pubblicamente la sua opposizione alle decisioni del governo durante il festival di Cannes. Tornerà solo sul set in un caso eccezionale, con quel film estremo e forse non a caso girato fuori dai confini coreani che è “Himalaya”. Ma il suo vero grande ritorno è con “I Saw the Devil”: un film infernale, in cui Choi arriva ad estremi impensabili.
La sua protesta contro la riduzione della “screening quota” per i film coreani non è un episodio da poco, nella sua carriera. La sua voce si fa sentire al festival di Cannes, e il suo volontario esilio dai set diventa rumoroso. Anche dopo il suo ritorno al cinema, si parlerà molto di questo. La quota di programmazione di film coreani in patria rimarrà falcidiata, a tutt’oggi. Ma senza la sua protesta non ne avremmo mai sentito parlare. E il cinema coreano rimane comunque in testa al box office nazionale. “La mia protesta vuole difendere soprattutto i film indipendenti, quelli che rischiano di avere minore distribuzione”, dice Choi, ergendosi a paladino dei piccoli, più ancora che dei film ai quali lui stesso partecipa. “L’industria cinematografica coreana è già occupata dai Multiplex, e si tende a fare solo film con grandi incassi sicuri; la quota di programmazione serve per difendere i film che si reggono sulla sceneggiatura, film come quelli di Kim Ki-duk, che altrimenti rischiano di non essere prodotti più”, dice Choi Min-sik.
Niente di personale contro Hollywood, dice. Hollywood che però, per lui, rimane lontana. “Per recitare in un film americano dovrei sapere bene l’inglese”, dice. “Un regista non ne ha bisogno, può parlare col linguaggio della macchina da presa. Un attore, invece, sì”. Quando approderà per la prima volta negli Stati Uniti, a New York, per l’Asian Film Festival, non stringerà accordi con produttori, ma se ne andrà a Broadway, a godersi “Un tram chiamato desiderio”, e se andrà per locali jazz, a sentire la voce blues di Cassandra Wilson. Niente Hollywood, ma un regista internazionale sì. E alla fine, Choi si troverà a contraddire la sua affermazione sulla lingua inglese e gli attori. Per fortuna. Con Luc Besson, il regista di “Léon”, Choi si trova a girare in lingua inglese un grande film hollywoodiano, al fianco di Morgan Freeman e Scarlett Johansson, che interpreta un corriere della droga che si trova investita di superpoteri… Il film uscirà in questa stagione.
Ma torniamo a quel lungo iato, a quella frattura nella sua carriera. A quel momento chiave. E’ il 2010. Dopo quattro anni di esilio, Choi torna a recitare in “I Saw the Devil”. E sembra ricominciare lì da dove aveva lasciato tutto. “La vita di un attore è lunga. Durante il periodo in cui non ho recitato, ho avuto tempo per pensare, per riflettere sul mio mestiere, sul passato e sul futuro. E’ stato un periodo fertile, per il mio lavoro di attore”. E i risultati si vedono: “I Saw the Devil” è un film sconvolgente, segnato dalla sua presenza di attore, e da una storia lancinante. E’ lui stesso a proporre lo script al regista. “La violenza, in questo film, cresce al punto di divenire quasi comica. Si ride per la tensione. Ma volevo anche raccontare, in qualche modo, come la nostra società sia sopraffatta dalla violenza, e condividere i sentimenti di terrore e di sgomento che tutti proviamo, nel mondo di oggi”.
E il futuro? “Un giorno farò il regista”, ammette. “Ma quel giorno, per ora, è lontano. Ho ancora molto da imparare come attore”, dice con un sorriso. “E poi, ci sono molti personaggi che vorrei ancora interpretare”.