Sinossi:
Yuejeong è una donna in carriera, bella, elegante, attenta alla scelta delle scarpe e a quella dei coordinati d’abbigliamento. Vive con la figlia adolescente, che incomincia a nutrire le prime insicurezze e le prime insofferenze, e deve fare i conti con nuove relazioni sentimentali. Con la figlia ha uno strano rapporto: si fa mettere alle strette dalle sue domande, ma è anche capace di una straordinaria dolcezza, quando riescono a trovare il tempo di stare insieme. Improvvisamente qualcosa sembra sfuggire dal suo controllo: un amore troppo importante, la fuga della figlia, un incidente. Riuscirà a tenere insieme i pezzi?
Recensione Film:
“Hard Goodbye” fa parte del progetto Munhakgwan, che la televisione coreana KBS produce nel 2005, affidando a vari registi la realizzazione di drama in digitale HD ispirati a testi letterari. Oltre al film di Lee Yoon-ki, il ciclo è composto da “Sonagi”, “The Post Horse Curse” e “The Outdoor Lamp”, per il quali vengono coinvolti Lee Won-ik, Sin Chang-seok. L’impostazione complessiva del racconto e della ripresa deve rispondere naturalmente ad esigenze di semplicità e di immediato appeal per il grande pubblico televisivo, Lee Yoon-ki non rinuncia ad introdurre una struttura circolare e spiraliforme, in cui le prime, enigmatiche, scene ritornano nel finale e si aprono a interpretazioni nuove e multiformi. È sera, e la donna sta preparando la valigia per il viaggio dell’indomani, ma riceve delle telefonate alle quali non vuole rispondere: spegne il cellulare, stacca la presa dell’apparecchio fisso e si mette a dormire. Il giorno dopo viene bloccata sulla porta dalla figlia adolescente Jiwon, incontra un incidente lungo il viaggio in taxi che la conduce all’aereoporto, e finalmente riesce a partire per una località innevata, dove scrive delle cartoline e le straccia. Queste stesse situazioni vengono ripetute nel sottofinale del film, e qualche tassello torna al suo posto: le telefonate che riceve arrivano dall’uomo con il quale ha incominciato una romantica relazione di innamoramento quasi adolescenziale, ma che ha deciso di lasciare per “sacrificarsi” all’attenzione per la figlia Jiwon. Che nel frattempo è scappata di casa, (forse) è stata ritrovata, e ha avuto il suo primo ciclo mestruale. L’incidente che incontra lungo la strada si è rivelato mortale per una sua amica, le cartoline che straccia sono ancora per l’uomo, e sono insieme un addio e una dichiarazione d’amore. Fra queste due parentesi, che racchiudono il racconto come in una cornice, ma che anche lo filtrano e lo infiltrano, si delinea l’identità di Yuejeong, che è (come rivela alla sua compagna di viaggio in aereo) una “single con una figlia”. Ovvero, ancora una volta nella poetica di Lee Yoon-ki, una donna sola, e divisa in due, sospesa tra altre identità femminili che premono su di lei. Da una parte la figlia, insofferente e un po’ saccente, che accusa la madre di non interessarsi abbastanza a lei (e, con una simbologia neppure troppo nascosta, di volerla “divorare” come fa il criceto con i suoi piccoli), che vuole giudicare e commentare ogni cosa: in una parola, che sta crescendo. Dall’altra la madre, che non vuole invecchiare e non accetta di fare i conti con il tempo che passa. In mezzo, sospesa ed ondeggiante come la giostra che si ferma ad osservare, ipnotizzata dall’oscillazione che in un certo senso la rispecchia più di ogni altra immagine del film, c’è Yuejeong. Non riesce ad avere relazioni stabili (la figlia la rimprovera di essere disperata), vuole lasciarsi andare ed innamorarsi, magari cullata da qualcuno dei temi che Lee Yoon-ki dissemina nel film (dalla musica francese, a Bjork, a Heaven da Top Hat), ma che resistere nel suo ruolo di garante delle insicurezze altrui. Yuejeong, letteralmente, non può perdere il controllo, come accade nel finale, in cui rischia un incidente simile a quello che ha provocato la morte della sua amica. Riversa sul volante, ma viva, con la macchina bloccata sul ciglio della strada, mentre tutte le altre le passano di fianco incuranti, riapre gli occhi. E piange.