HIMALAYA, WHERE THE WIND DWELLS

Titolo Coreano:

히말라야 : 바람이 머무는 곳

Pronuncia Originale:

Himalayaeui sonyowa

Titolo Italiano:

Himalaya, da dove nasce il vento

Regista:

Anno:

2008

Durata:

95 min

Nazione:

Corea del Sud

Formato:

35mm

Tipologia:

Colore:

Colore

Lingua:

Coreano

Sottotitoli:

Italiano, Inglese

Genere:

Produzione:

Distribuzione Internazionale:

Sceneggiatori:

Musiche:

Direttore alla Fotografia:

Edizione Festival:

Sinossi:

Un uomo solo, silenzioso occupa la prima inquadratura, dando le spalle all’uscita di un ascensore. Il suo nome non lo sapremo mai – del resto, non sapremo mai il nome di alcun personaggio del film. Lui è un Choi Min-sik che si offre quasi come puro corpo allo sguardo del regista. Va in Nepal: deve portare una notizia, e qualcos’altro. Lo vediamo trascinarsi sulle piste fatte di sassi, respirare a fatica, arrivare in un villaggio. Seguirne la vita, ospitato – senza troppe domande, con antica e assorta gentilezza – dalla famiglia cui deve portare la notizia.

Recensione Film:

Con questo film facciamo un tuffo nel Nepal, ai piedi delle montagne più alte del mondo, battute da venti antichi di secoli. E anche le facce che incontriamo sembrano antiche di secoli, incartapecorite dal sole, dal vento, dal tempo. Camminare, preparare il cibo, guardare, suonare: tutto sembra più lento, tutto ha un ritmo diverso. In questo ritmo antico, sospeso, si innesta Choi Min-sik, con i suoi vestiti occidentali che prendono presto la polvere, con la sua cravatta inutile. Viene dalla Corea con la sua valigia rigida, di acciaio, per portare una notizia. Ma appena mette piede tra quei sassi, in quel deserto di pietra, quello che è venuto a fare sembra perdere di senso, perdere peso. E quello che vediamo è lo smarrirsi di un uomo tra rituali, gesti e sguardi che sembrano venire da un altro pianeta.
Non ha molte parole a disposizione, Choi Min-sik. Si presta al regista, e al film, come puro corpo, come materiale umano da disporre lungo quelle piste da capre. Non parlano molto, nel film. Ma i rari sorrisi dei nepalesi, le parole gentili verso quello straniero, valgono un lungo monologo, e forse riescono a toccare il cuore “veloce” di noi spettatori occidentali.
La cinepresa del regista Jeon Soo-il spia l’ostinata solitudine del protagonista, all’inizio inquadrato di spalle, e sempre corpo estraneo in quel mondo di altipiani, silenzi, parole rare. Piani sequenza lunghi, talvolta estenuanti, restituiscono lo spessore del tempo, che niente interviene a mitigare.
Dopo tre anni di pausa, “Himalaya” segna il ritorno al cinema di Choi Min-sik. Aveva ottenuto il successo con “Oldboy” e “Failan”, ma sembrava in qualche modo aver perso entusiasmo per il mondo del cinema. Non è sorprendente, dunque, che il suo ritorno avvenga con un film insolito, al servizio di un regista indipendente, molto amato dai critici. Il film che nasce dalla loro collaborazione ha una forte componente di documentario. Illumina la vita dell’Himalaya con un ritmo meditativo, minimalista, lontano dalle convenzioni del cinema commerciale.
Nei fantastici scenari dell’Himalaya, l’uomo sembra una formica perduta. E forse è questo, in definitiva, il messaggio ultimo del film. Non siamo altro, tutti, che polvere alzata dal vento.