Film Review:
Parasite. Lotta di classe in un interno
Se c’è un contesto che non si è sorpreso più di tanto per l’enorme successo di Parasite è proprio quello del Florence Korea Film Fest, che da diciotto anni (e primo in Italia) si spende per diffondere un Cinema che, per impegno produttivo, varietà dei generi, quantità e soprattutto qualità, è secondo, forse, solo a quello statunitense. Chi in questi anni ha avuto la fortuna di lavorare, collaborare e soprattutto frequentare le proiezioni del Korea ha potuto verificare non solo l’effettiva importanza di questo movimento ma la lungimiranza di una rassegna che già nel lontano 2011 ha celebrato e premiato il talento di Bong Joon-ho, di cui tutti sembrano accorgersi solo adesso.
Dopo la clamorosa quanto meritata vittoria della Palma d’oro a Cannes per Parasite e il suo regista è arrivato l’altrettanto clamoroso e meritato trionfo nella notte degli Oscar, oltretutto in un’annata tutt’altro che interlocutoria per il cinema statunitense, contro film come The Irishman di Scorsese, Once Upon a Time in Hollywood di Tarantino, Joker di Phillips (a cui va aggiunta “l’infatuazione” dei Golden Globe per i piani-sequenza del britannico 1917 di Mendes), dove niente lasciava presupporre che fosse proprio questo l’anno in cui i premi per il Miglior film, Miglior regia e Miglior sceneggiatura sarebbero andati tutti per la prima volta nella storia a un’opera non in lingua inglese, per certi versi già incredibilmente presente nella rosa finale.
Compreso tra due inquadrature apparentemente identiche (un dolly che scende da un paio di calzini appesi ad asciugare in mezzo a una stanza), ma in realtà di senso diametralmente opposto (la prima all’alba, in piena luce, nelle speranze di una storia che si apre; l’ultima di sera, al buio, nelle farneticazioni di una storia che si chiude), Parasite mette in scena un particolare conflitto di classe che si colloca retoricamente nella carne viva di un contesto sociale che appare a tutti ineludibile e in cui nessuno si pone più il problema causato dalle enormi differenze dovute alla sua stratificazione. Ma è una messa in scena che segue un punto di vista estremamente particolare, dove non c’è nessun affrancamento né alcuna presa di coscienza, che ci mostra “semplicemente” quanto sia sterile la ricerca di una soluzione privata e sostanzialmente egoistica dei propri problemi e come questo sia un tentativo inevitabilmente destinato a degenerare in una grottesca guerra tra poveri, decisi anche a comportarsi da“parassiti” pur di ottenere quelle che in fondo sono solo la tranquillità e la dignità di un lavoro sicuro, che una società giusta dovrebbe garantire a tutti.
Alla fine, però, chi è il vero “parassita”? Il povero che si introduce surrettiziamente nello spazio del ricco per procurarsi quello che invece dovrebbe spettargli, oppure il ricco che in modo sfacciatamente ostentato deve il suo stato (anche e soprattutto) a quelle stesse disuguaglianze sociali? È proprio nella rappresentazione dello spazio in cui i protagonisti vivono, si muovono, si amano, si nascondono, si “massacrano” che questo interrogativo trova il suo senso più profondo. All’orizzontalità del treno classista di Snowpiercer, Parasite sostituisce la più realistica verticalità strutturale e urbanistica delle sue case, non più semplici sfondi metaforici o oggetti tangibili di una differenza di classe, ma veri e propri soggetti attivi nell’azione, che interagiscono con i personaggi: li contengono, li limitano, li occultano, li ostacolano, si allagano, si ribellano, dando origine a un vero e proprio processo di personificazione dove le abitazioni diventano esse stesse personaggi “senzienti”. Soprattutto l’avveniristica e domotica villa dei Park (vittima dei “parassiti” ancor prima dei suoi stessi proprietari) da spazio scenico si trasforma nel principale motore del conflitto narrativo, formale e visivo del film: una casa “parlante” che diventa luogo straniante e retoricamente allegorico, dove il rigore funzionale si confonde con l’illogicità delle pulsioni emotive. Una razionalità progettuale che contiene al suo interno lo scenario assurdo dell’horror e rende inevitabile che proprio lì, con un’improvvisa, inaspettata e più che tarantiniana accelerazione finale, tutta la storia collassi nei vari finali che il film ci offre.
Quello di Bong Joon-ho è un cinema liquido, mercuriale, che all’interno di uno stesso film attraversa generi e registri e Parasite ne è una specie di summa teorica. Qui infatti si spazia dal comico, alla commedia, al con movie, al thriller, fino all’horror e al gore, che lo fanno diventare uno specchio iperbolico e una volta in più allegorico della vita, dove il realismo viene paradossalmente raggiunto attraverso l’apparente inverosimiglianza del racconto e della sua messa in scena. Gli stessi personaggi appaiono pirandellianamente in cerca di un autore che ne ridefinisca il rispettivo ruolo sociale, tanto da essere ben contenti di poter recitare la parte prevista dal copione di quel “piano” che si sono dati per mettere in atto il loro tentativo di riscatto, salvo poi arrivare alla paradossale e contemporaneamente logica conclusione che «solo se non hai un piano, niente può andare storto». E questo al cinema come nella realtà.
Presentazione Critica di Luigi Nepi